La mente liberata

Steven C. Hayes

La mente liberata

Di Steven C. Hayes. Prefazione di Paolo Moderato

All’inizio degli anni ’60, nel mondo della psicologia clinica internazionale avviene un cambiamento dirompente: si sta incrinando quella sorta di monopolio che ingessava da sessanta anni il campo clinico e psicoterapeutico. Alcuni dati per capire meglio la rilevanza del fenomeno: il 95% dei clinici dell’epoca aveva avuto un training psicoanalitico, la media dei pazienti per i terapeuti psicodinamici era 8/9 al giorno (oggi si parla di 2,75 di media), tutti i dipartimenti di Psicologia proponevano corsi di psicologia dinamica, la psicoanalisi era presente nei film, pensiamo a Hitchcock (Io ti salverò, Marnie) o Woody Allen, ma anche il Fellini onirico di 8 e ½.

Insomma la psicoanalisi era l’establishment clinico, la terapia di default, il linguaggio intellettuale, il codice di lettura prevalente della realtà. Si continuava a dibattere se la psicoanalisi fosse o meno scientifica, ma si continuava ad andare “dall’analista”, (più o meno convinti che servisse).

Poi qualche psicoanalista comincia a sentirsi a disagio di fronte al fatto che lunghissime terapie producessero così pochi miglioramenti nei loro pazienti: qualcuno più curioso (o più esasperato dagli insuccessi) di altri nota alcuni fenomeni strani, comincia a cercare alternative. I nomi per gli addetti ai lavori, sono noti: Albert Ellis, Aron Beck, Joseph Wolpe, Arnold Lazarus, Hans J. Eysenck, per citare i padri fondatori. Nasce la Terapia del Comportamento prima, e la Terapia Cognitivo Comportamentale poi, nota con l’acronimo inglese CBT (Cognitive Behavior Therapy). Solida base scientifica, brevità, risultati tangibili, protocolli verificati empiricamente, efficacia dimostrata con prove sperimentali.

In breve la CBT conquista una posizione predominante nel mondo clinico internazionale, e anche in quello nazionale nostrano, seppur più lentamente. Lo spirito del tempo era favorevole. Necessità di forme di intervento più brevi e più efficaci, soprattutto con le nuove patologie da stress, lo sviluppo della evidence based clinical practice, la possibilità di essere applicata nei servizi pubblici nazionali, dove c’è un sistema di Welfare, ad esempio il programma IAPT- Improving Access to Psychological Therapies – in Inghilterra), o di essere agevolmente rimborsata dalle assicurazioni, negli Stati Uniti, sono tutti fattori che contribuiscono al successo della CBT.

L’inizio degli anni ’90 segna l’inizio di significativi cambiamenti all’interno della CBT. Sorgono nuovi modelli e indirizzi, che vengono etichettati come terapie cognitivo comportamentali di terza onda: Dialectical Behavior Therapy, (DBT), Mindfulness Baset Therapy (MBT), Functional Analytic Psychotherapy (FAP), Acceptance and Commintment Therapy (ACT). Questi modelli capovolgono uno dei principi su cui si fondavano le psicoterapie: che per stare bene bisognasse liberarsi delle emozioni spiacevoli, pensare positivo, modificare i processi di pensiero negativi, in poche parole evitare o allontanare tutto ciò che porta dolore e sofferenza.

Steven Hayes è uno dei principali alfieri di questo cambiamento, senza nulla togliere ad altri quello con una solida base sperimentale, oltre che clinica. Inoltre è anche una persona che ha provato sulla sua pelle la sofferenza psicologica: soffriva di attacchi di panico devastanti, lo racconta nel libro, e nel TED talk.
Questa storia di sofferenza, e l’apertura esperienziale caratterizza anche un’altra caposcuola, Marsha Linehan, fondatrice della DBT. Anche lei lo racconta dopo aver scelto di fare, su richiesta di un paziente, coming out, mostrando le cicatrici sulle sue braccia e raccontando come anche lei soffrisse di quei disturbi che avrebbe poi curato nei sui pazienti.
Questo aspetto esperienziale è uno degli elementi che caratterizza l’ACT: bisogna provare le cose sulla pelle, nel mondo reale, non solo in quello delle parole e dei pensieri.

Ma torniamo a Steve (ci conosciamo da oltre trent’anni). Il punto centrale del suo pensiero è: per vivere una vita degna, ricca di significato, dobbiamo smettere di vivere nella nostra mente come se fosse la realtà, dobbiamo abbandonare l’impari e perdente lotta con la sofferenza, imparare a stare con ciò che è doloroso. Anzi dobbiamo rivolgerci proprio verso la nostra sofferenza e fare spazio a essa.

È controintuitivo, è spiazzante, è difficile, ma non è completamente nuovo. Tutta la letteratura sulla mindfulness, sviluppata dalla tradizione buddista di meditazione, si basa sull’accettare le emozioni, comprese quelle spiacevoli, così come sono, senza giudicarle e senza rifiutarle. Anche la CBT tradizionale, in un certo modo, aveva un atteggiamento di apertura analogo verso la sofferenza nel momento in cui indicava l’esposizione, cioè il contrario dell’evitamento, come uno dei principi fondamentali della terapia. Il protocollo di David Barlow, per provocare e sostenere le sensazioni interne dell’attacco di panico, va in questa direzione.

Steve definisce questo insieme di capacità come flessibilità psicologica. Che cos’è la flessibilità psicologica? Un nuovo costrutto, come i Big Five o l’Autoefficacia? L’ontologia immateriale della psicologia, unita al fatto che tutte le sue funzioni siano incarnate, ha spinto la psicologia a inventare il termine costrutto per dare consistenza, coerenza e stabilità alla fluttuazione del nostro comportamento individuale. Nella tradizione comportamentale contestualista, da cui entrambi proveniamo, si preferisce parlare di repertori di abilità più che di costrutti. Il termine repertorio rende meglio la dinamica che caratterizza la nostra vita. Se prendiamo il repertorio di un concertista famoso, ad esempio un pianista, possiamo vedere che in esso vi sono nuclei piuttosto stabili di composizioni che vengono a rotazione presentati al pubblico: ad esempio i 5 concerti per piano e orchestra di Beethoven, i 3 concerti di Rachmaninoff, alcuni concerti di Mozart. Poi ci sono i pezzi per piano solo, e qui l’elenco è sterminato (ma non infinito, anche qui c’è una stabilità). Poi, per alcuni, c’è la curiosità, l’apertura e le incursioni in repertori sperimentali, innovativi. In ogni caso se si segue un artista negli anni si può vedere la coerenza che caratterizza il suo repertorio: chi si è specializzato sugli Studi di Chopin e Schumann difficilmente presenterà il Clavicembalo ben temperato e Le variazioni Golberg di Bach, e viceversa. In breve, il repertorio è un pattern modificabile con l’apprendimento – nuovi pezzi entrano, vecchi pezzi escono – che mantiene tuttavia una sua stabilità.

La flessibilità psicologica è un complesso repertorio di abilità che ci consentono di interpretare meglio lo spartito della nostra vita, senza cercare di sfuggire a ciò che non si può sfuggire, e in questo tentativo di fuga rimanere intrappolati in una prigione che noi stessi ci siamo costruiti. È la capacità di senti¬re e pensare in modo disponibile, di aprirsi, per scelta e con consapevolezza, all’e¬sperienza del momento presente e di dirigere la propria vita nella direzione di ciò che è importante per noi.

L’alternativa è l’inflessibilità psicologica, un repertorio ristretto di vita, di azioni e di valori, che è risultata predittiva di ansia, depressione, dipendenza da sostanze, risposte traumatiche, disturbi alimentari e quasi ogni altro problema psicologico e di comportamento.

È possibile cambiare, e passare dall’inflessibilità alla flessibilità? Dal cercare di sfuggire ciò che è doloroso, al rivolgersi verso la propria sofferenza, per vivere una vita ricca di significato e scopo? Hayes, sulla base di centinaia di ricerche, risponde sì. La metafora che lui usa è definita dal termine inglese pivot, il perno attorno a cui ruotano le cose. Il termine è usato anche nello sport della pallacanestro, per definire una possibile rotazione di 180° mantenendo il corpo ancorato al suolo con un piede. Anche in questo caso si tratta di una rotazione psicologica sul piede perno: non si tratta di fare salti mortali o tuffi carpiati, si tratta “solo” di smettere di volgere le spalle al dolore, nel tentativo di evitarlo, e di rivolgersi invece verso di esso guardandolo in faccia..
Perché leggere Libera la mente? Perché questo libro spiega bene perché e come fare perno per dirigere la nostra vita verso ciò che è importante per noi: non semplici obiettivi ma i nostri valori più profondi. Non è un libro self-help, non promette ricette per vivere felice con…per curarsi da solo con… ecc. È un libro pensato lungamente, una storia intellettuale e personale di vita, che induce a pensare, molto.

Il lettore non si faccia spaventare dalla mole del libro: è molto accessibile, mai banale, e si articola in tre parti che possono essere affrontate in momenti diversi, senza perdere il filo della narrazione, e che toccano temi tipici dell’umanità di oggi, dalla salute mentale (depressione, ansia, dipendenze) a quella fisica (cancro, dolore cronico, infarto); dalle sfide sociali (violenza, pregiudizi) a quelle prestazionali (affari, sport, diete). In tutti questi campi le strategie basate sull’ACT hanno dimostrato, dati alla mano, di poter essere d’aiuto.

La vita non è un problema da risolvere, ma un percorso da vivere, imparando a camminare. All’inizio siamo tutti toddlers, come i cuccioli d’uomo camminiamo traballanti, e impariamo vivendo, anche leggendo libri come questo.

Forse il più bel complimento che mi sento di rivolgere a questo libro è che è facilmente comprensibile per il lettore non tecnico, non addetto ai lavori. Allo stesso tempo è una lettura che consiglio fortemente anche a tutta la generazione dei nuovi terapeuti ACT cresciuti in seno ad ASCCO, IESCUM e ACT- Italia, e che hanno avuto il privilegio di conoscere personalmente Steve Hayes nel momento forse più fecondo della sua avventura intellettuale.

Milano 02-02-2020

Paolo Moderato
Professore di Psicologia
Presidente CBT- Italia
Past President EABCT

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